11.10.2013 14:23

Le criticità scientifiche di Invalsi rispetto alle esigenze del sistema scolastico nazionale

 

di Mila Spicola

 

La "teoria" di fondo del sistema Invalsi deriva dalla convinzione  che  la valutazione delle scuole viene ad essere condotta per “aggregazione perfetta” delle performances degli studenti nelle prove che ad hoc il Ministero somministra. 

Sembra mancare, dalle prime valutazioni conseguenti alle rilevazioni, una considerazione attenta degli effetti di contesto, sociale e familiare, che influenzano i risultati degli studenti, mentre tutta l’enfasi viene scaricata sul giudizio espresso “a carico” di insegnanti e dirigenti. 

Quello di Invalsi è un assunto derivante da pratiche valutative sistemiche sperimentate da decenni in paesi come Usa e Regno Unito e che, adesso possiao dirlo, si sono dimostrate inefficaci sul piano degli obiettivi: migliorare i sistemi d'istruzione.

Il programma Race to The Top, ad esempio, dell'amministrazione Bush, che ha investito 59 miliardi di dollari, era fondato sul rapporto valutazione studenti - responsabilità docenti o dirigenti, legando i rendimenti degli studenti a meccanismi premiali o punitivi (di carriera, di stipendio, di funzioni) e rendimenti rilevati da una quantità abnorme di prove nazionali standardizzate a mezzo questionario/test. Tale logica si è rivelata, a circa dieci anni dal programma, palesemente inefficace e deleteria: piuttosto che contenere i dati drammatici di dispersione scolastica del sistema scolastico statunitense li ha peggiorati. Oggi la dispersione scolastica raggiunge il 66% ponendosi come una delle piaghe da risolvere nell'amministrazione Obama. Nè ha sortito effetti migliori nel decennio passato una simile impostazione nel sistema scolastico britannico, il quale sta gradualmente mutando le pratiche valutatorie, dopo aver attivato negli ultimi cinque anni un complesso dibattito-confronto tra mondo della scuola e istituti di valutazione per giungere a pratiche di condivisione, di autovalutazione e di covalutazione.

Quelo che si vuole comunque precisare come la criticità non risieda tanto nel tipo di strumento utilizzato e nelle misure rilevate, quanto nelle valutazioni e nelle azioni conseguenti a quelle misure. Un test, americano o Invalsi che sia è un fornitore di dati, non altro. 

Il punto è come valuto quei dati e cosa ci faccio.

Questo per dire come il rendimento degli alunni sia il combinato disposto di più fattori e che a nulla giova immettere meccanismi competitivi o premiali sui docenti pensando di migliorarne le azioni di questi ultimi, meno che mai pensando di migliorare i rendimenti degli studenti, perchè gli ambiti su cui agire sono altre azioni di sistema volte ad annullare i fattori che influiscono in modo preponderante sul rendimento degli studenti. Bene agire sulla formazione, in ingresso o in servizio dei docenti, ma come azione di sistema, che non può essere variabile dipendente (dal rendimento dei ragazzi, dalla discrezionalità del singolo docente,..), ma azione necessaria indipendente e necessaria per tutti in modo uniforme.

Le ultime proposte di azione conseguenti alle rilevazioni nazionali Invalsi sembrerebbero ignorare a tal punto gli esiti nefasti  nei sistemi scolastici di Paesi che hanno fatto uso di modelli anglosassoni da assumerli come modelli di riferimento. 

Ripeto: il tema non è la necessità di sistemi di rilevazione standardizzata per raccogliere informazioni utili. Il tema è tutto quello che riguarda il "cosa ci facciamo dopo".

 

Ben diversa è l’impostazione dell’OECD, che invece rivela, come dimostrano le indagini più aggiornate, il peso dei suddetti fattori (contestuali, strutturali, organizzativi) nel dare conto delle perfomances dei sistemi (e sub-sistemi) scolastici nazionali.

 

D'altro canto c'è da dire inoltre che i sistemi scolastici che si mantengono stabilmente in cima alle classifiche hanno in comune alcune caratteristiche: concentrano le attenzioni sui fattori di contesto con politiche compensatorie di tipo organizzativo didattico, focalizzano le pratiche sulla "relazione" studente-docente-scuola,  investono attenzione e risorse sulla formazione iniziale, sulla selezione e sull'aggiornamento in servizio permanente di tutto il personale come premessa di crescita mentre non hanno proprio sistemi di valutazione nazionale e nemmeno di testing nazionale, il caso sempre citato è la Finlandia.

La Finlandia sa perfettamente che gli indici di valutazione sono dei termometri di misura non sono nè l'obiettivo del sistema, nè la cura; in quel  paese l'obiettivo di sistema rimane focalizzato sul miglioramento dei processi di insegnamento apprendimento qualificando al massimo la formazione universitaria dei docenti con percorsi dedicati, attuando una selezione rigorosa degli insegnanti e attenzionando gli aspetti organizzativi e gestionali delle singole scuole in modo da creare gli ambienti migliori sia per i docenti che per gli studenti. Da noi la gara è su come riuscire a creare gli ambienti e le condizioni gestionali organizzative peggiori . Scaricando il peso delle azioni assenti e delle mancanze di sistema in merito alle azioni testè descritte su docenti e dirigenti. 

 

Il nostro Paese, nella logica perversa di ascoltare e dare credito sempre a chi sa poco ma crede e millanta di sapere, sta cercando con ogni mezzo di scimmiottare le logiche americane o anglosassoni (fallite) senza nemmeno interrogarsi sulle condizioni particolari di contesto e di capitale umano di partenza presenti nel nostro contesto. 

Nell'ultimo decreto scuola si è avanzata l'ipotesi dei "corsi obbligatori per quei docenti le cui classi hanno ottenuto rendimenti scarsi nelle prove Invalsi". Dunque con un intento valutatorio e per giunta con un  meccanismo premiale-punitivo ingenuamente errato.

Al di là delle criticità dell'azione dal punto di vista contrattuale, è proprio l'assunto scientifico a non trovare fondamento.

 

Se anche volessimo da seguito ideologico all'assunto "colpa dei docenti", pur agendo in questo modo su questa "colpa", dati alla mano si dimostra come la modalità "punisco il docente con gli studenti dai rendimenti peggiori" sia uno spreco di denaro pubblico perchè non produce effetti sul miglioramento dei livelli degli studenti , anzi, se possibile, li peggiorano (i 59 miliardi messi da Bush in un programma simile insegnano), semplicmente perchè i livelli di rendimento dei "peggiori" hanno cause e pesi ben più ampi e complessi nei vissuti individuali e sociali degli allievi di fronte ai quali l'azione del docente vale ma non basta. Per bastare deve essere inserita in un contesto di azioni che facilitino le pratiche didattiche e che le potenzino.

 

E'  infatti noto a tutti coloro che si occupano di sistemi educativi come il docente migliore, a parità di qualità didattica, inserito in fattori di contesto deboli e carenti strutturalmente (fattori socioeconomici, ma anche scolastico-organizzativo), ottiene dagli studenti rendimenti diversi. 

E' altresì noto che se non si agisce sui fattori che hanno peso maggiore su certi effetti  non si elimina il problema.

 

Se azione sui docenti deve farsi è sul piano strutturale, organizzativo e gestionale mettendoli tutti in pari condizioni di operatività compensando le "differenze di partenza": formative, selettive, di aggiornamento, di strutture e strumenti, valutando la diversità di condizioni in cui si trovano ad operare. A quel punto la parola "merito" o a parola "qualità del docente" uscirebbe dalle nebbie dell'indistinto.

 

L'Italia ha un territorio diseguale dal punto di vista socioeconomico, dal punto di vista infrastrutturale e di sistema. E' spaccata in due. 

Ai contesti regionali degradati o deboli corrispondono matematicamente bassi livelli nei rendimenti,  drammaticamente interconnessi. L'attività del docente, anche di altissima qualità, rischia di avere peso trascurabile rispetto agli altri fattori di contesto, se non si accompagna ad altre azioni che lo mettano nelle condizioni di esplicare al meglio i processi di insegnamento-apprendimento compensando gli indicatori di fattori negativi che rilevano differenze di contesto su tutte le criticità di contesto socioeconomicoculturale familiare(attraverso tempo scuola, insegnamenti individualizzati in classi non troppo numerose, attività informali che compensano le carenze di conoscenze informali e agiscono sui processi metacognitivi). 

 

Nelle rilevazioni internazionali il fattore Escs (indicatore socioeconomicoculturale familiare) è quello che statisticamente determina in modo preponderante i rendimenti se su tale fattore non si agisce compensando.

 

Un esempio: un bambino deprivato di una periferia palermitana oggi arriva in prima elementare con un bagaglio cognitivo e metacognitivo di conoscenze implicite ed esplicite decisamente minori rispetto a un bambino di ceto socioeconomico elevato.

Queste carenze pregresse si "incontrano" adesso con la diseguaglianza e la deficienza di opportunità contestuali: lo stesso bambino a 13 anni avrà un anno e mezzo di scuola in meno per assenza di tempo pieno nelle scuole siciliane, rispetto ad esempio al coetaneo lombardo.

Un ragazzo debole di 14 anni si ritrova negli istituti tecnico professionali in classi con una media di 30 alunni, in cui difficilmente si riuscirà a recuperare le carenze di base singole pregresse individualizzandone il percorso e verrà automaticamente lasciato indietro. 

A fronte dei dispersi c'è l'esercito dei deboli che rimane nel sistema scolastico ma che non riesce a recuperare e anzi amplifica le distanze anno dopo anno. 

 

Il sistema migliore sarebbe quello che fin da subito, dalla scuola dell'infanzia prescolare, annulli le differenze di partenza disegnando un percorso in cui i fattori che producono i livelli di rendimento siano effettivamente il merito del ragazzo e del docente, limitando quasi allo zero i fattori di diseguaglianza esterni. 

Nei contesti con livelli cognitivi peggiori si è agito invece in modo opposto, cioè, non si è agito affatto: non solo sono assenti politiche compensatorie, ma sono addirittura presenti politiche deprivatorie (di tempo, di strutture, di organizzazione, di numerosità delle classi): quasi zero la presenza di asili, tempo pieno assente, tempo curriculare minimo (alle elementari si ha spesso una sola opzione di scelta, la minima) e spesso ridotto ancor di più per emergenze locali (locali fatiscenti o insufficienti, doppi turni, emergenze meteorologiche, danni alle strutture, personale precario stagionale in sciopero).

 

Sono i livelli cognitivi peggiori quelli che poi determinano le medie nazionali.

La qualità dell'insegnamento, ad oggi,(non tutti sanno che in contesti a rischio generalmente si incontrano i docenti di ruolo migliori, non i peggiori, intuitivamente si può comprendere il perchè) aiuta ma non basta a compensare le debolezze pregresse di contesto e le differenze scolastico-organizzative (su tutte il tempo scuole, seguono le carenze strutturali edilizie).

 

C'è da dire comunque che l'indicatore "rendimento scolastico" nelle zone deboli del paese, pur essendo limitato rispetto ad altre aeree, presenta valori meno allarmanti rispetto ad altri indicatori di "qualità collettiva": disoccupazione, corruzione, decisionalità amministrativa,... Svimez conferma nell'indagine 2013 come comunque, nonostante le carenze e le difficoltà in cui si trova ad operare, la scuola nelle aree depresse "tiene botta" alla crisì e ai contesti meglio di altri ambiti.

IL punto è migliorare.

 

Entro questo quadro dunque si inserisce l'attività del Sistema di Valutazione Invalsi che misura i rendimenti degli studenti. 

A questa misurazione ad oggi non si è dato esito con azioni conseguenti adeguate, ma ciò che si affaccia all'orizzonte rileva una scarsa conoscenza delle dinamiche di sistema dei mondi pedogogico-educativi affiancata a una superficiale conoscenza e "scopiazzatura" di pratiche adottate altrove, rispondenti perlopiù a paradigmi teorici economici (paradigmi premiali, logiche di performance), non pedagogici, che si sono rivelate nel tempo inefficaci. Semplicemente perchè i processi educativi non sono regolati dalle stesse leggi dei processi di tipo economico.

 

La domanda "cosa fare dunque" merita un approfondimento e un livello di definizione adeguata che rimandiamo ad altre riflessioni, qualche cenno sul "cosa fare", limitatamente alle cose di cui abbiam scritto, possiamo darlo:

 

 

  - Attuare politiche scolastiche compensatorie di tipo strutturale non marginale nelle aree a rischio del Paese perchè sono quelle che presentano criticità di livello maggiori, cioè i rendimenti insufficienti:ad esempio, banalmente, ridare il tempo scuola tolto agli studenti delle aree a maggior rischio economico, che corrispondono poi a debolezza di rendimento. Avanzare proposte tampone come il corso ai soli docenti con livelli invalsi di rendimento scarso, - si trova nel Decreto Scuola del Governo Letta-Alfano -  è azione a dir poco ingenua oltre che inefficace, per i motivi di cui s'è detto sopra. Come marginale è distribuire 15 milioni di euro per progetti contro la dispersione scolastica (azione prevista nel decreto scuola). La dispersione scolastica si combatte con azioni di prevenzione che comprendano la popolazione scolastica nei primissimi anni di scolarizzazione e prescolarizzazione compensando subito eventuali debolezze e uniformando differenze di livello ancor prima che si formino.

 

Un sistema di valutazione serve, ma le premesse, le metodologie e gli obiettivi, come in ogni valutazione efficace, devono essere condivise tra valutatori e valutati. Urge la costruzione di un sistema di confronto costante sui temi e sulle pratiche valutative tra mondo della ricerca, mondo della scuola e istituto di valutazione per mettere a punto un sistema che concordi  e rilelabori su basi comuni  premesse, strumenti e finalità, tenendo presente come obiettivo costante il miglioramento dell'offerta formativa e delle condizioni in cui essa si esplica, non per "provare" ipotesi largamente ideologiche, in un verso o nell'altro. E' più difficile a dirsi che a farsi. Con i moderni mezzi della rete, attivare, appunto, "la rete" di confronto, non è difficile nè costoso. E' più difficile individuare le volontà di farlo.

 

- attivare in modo adeguato modelli di gestione e organizzazione scolastica attuando una flessibilità di fatto e non di principio. Ad oggi l'autonomia scolastica è un limite burocratico non un'agevolazione funzionale;

 

agire sui docenti e sui dirigenti ma in modo pertinente ed efficace. Il tema è recuperare la professionalità di sistema non solo nella forma ma anche nella sostanza. Evitando i "patti di sindacato" del passato che mediano necessità meramente occupazionali con compromessi al ribasso per mantenere contenimento di risorse (per pagarti poco devi dar poco, per pagarti poco abbasso il livello selettivo). E' necessario mettere mano al processo di formazione-reclutamento-selezione oggi totalmente inadeguato, per agire secondo modelli diversi, chiari e trasparenti che portino in classe i docenti migliori legando il processo formativo universitario al reclutamento e portando nelle aule non tanto i laureati migliori, ma i laureati docenti migliori. E' necessario formare dotare già all'ingresso tutti i nuovi docenti delle competenze proprie della professione docente, dal punto di vista didattico, pedagogico e relaionale non solo di bagaglio conoscitivo disciplinare. Perchè è esattamente quello che manca. Frutto anche dell' ignoranza collettiva (che riguarda tutti) sul mestiere e sulle competenze necessarie e specifiche del mestiere docente, sul dove e come acquisirle e sulla necessità di acquisirle, in ingresso e in itinere. Il Paese tutto nei confronti dei docenti rimane provincialmente in bilico tra la mitizzazione del docente eroe o missionario e la banalità del fannullone, entrambe posizioni figlie della deprofessionalizzazione specifica del mestiere. Un docente è un professionista che acquisisce e deve acquisire con studio (con un sistema formativo specifico, con sistema di aggiornamento continuo e con esperienza) competenze professionali che immette in modo organico nel sistema, non discrezionalmente (Sul tema ne ho scritto qua:  https://laricreazionenonaspetta.com.unita.it/scuola/2013/09/03/come-si-diventa-insegnante-in-italia );

 

- considerare l'aggiornamento e la formazione in servizio una delle funzioni della professione docente, non un atto opzionale ma una pratica quotidiana e normale in un mestiere che è ricerca. Come tale: per tutti, organizzata, programmata e prevista nella contrattazione. Non "obbligo", bensì funzione. Prevista per tutti come mezzo di qualificazione continua e non atto una tantum, discontinuo e frammentato. Ad oggi il docente che si aggiorna lo fa a proprie spese e con enormi resistenze da parte del sistema scolastico (permessi negati, nessun riconoscimento, spese personali). Ridare ai docenti una funzione sociale che è primariamente intellettuale, non impiegatizia.

 

 

Sull'argomento e sulle criticità di tipo scientifico metodologico delle prove Invalsi come sono concepite oggi preferisco riportare una riflessione autorevole, quella di Benedetto Vertecchi, padre della valutazione in Italia, quindi non tacciabile di corporativismo o simili, e fondatore dell'Istituto Invalsi.

 

"ELEMENTI DI AMBIGUITA' NEL SISTEMA NAZIONALE DI VALUTAZIONE"

di 

Benedetto Vertecchi

 

LA CAMPAGNA DI RILEVAZIONI CHE SI STA AVVIANDO NELLE SCUOLE ITALIANE CONTIENE NON POCHI ELEMENTI DI AMBIGUITÀ. 

Proprio da tali ambiguità hanno origine sia gli atteggiamenti critici di tipo complessivo, sia gran parte delle obiezioni sollevate sulle scelte tecniche e organizzative effettuate. Cercherò di definire qui i principali aspetti della questione valutativa, al fine di affermare, almeno sul piano concettuale, riferimenti corretti. Per cominciare, è difficile considerare valutativa un'attività che consiste nel rilevare sull'intera popolazione la capacità di soddisfare un certo numero di consegne. Un conto è, infatti, che un numero limitato di allievi (una classe, una scuola) sia sollecitato a dimostrare le conoscenze di cui dispone, altro conto che la medesima operazione sia compiuta sui grandi numeri. In una classe, o in una scuola, gli insegnanti possono avvertire l'esigenza di fondare le scelte ulteriori su un quadro meglio definito di quello già disponibile e che, se si avverte tale esigenza, è presumibile che non soddisfi pienamente. 

 

Quella che viene compiuta è un'operazione di verifica (o di misurazione) che è solo parte di una strategia valutativa che si fonda sulla considerazione del modo in cui si distribuisconotre principali gruppi di variabili

Il primo gruppo riguarda le caratteristiche dei singoli allievi, il secondo quelle delcontesto socioculturale che fa da contorno alla scuola e il terzo le scelte organizzative e didattiche cui si conforma l'attività educativa. 

 

Ciascun gruppo di variabili dev'essere considerato per la maggiore o minore prossimità degli effetti che può indurre sia nel tempo breve sia, a maggior ragione, nei tempi lunghi. 

In altre parole, le caratteristiche degli allievi sono da collegare alle esperienze e alle interazioni della vita quotidiana, ma anche ai condizionamenti di provenienza remota, per esempio quelli consumistici e valoriali derivanti dall'esposizione ai messaggi della comunicazione sociale. È evidente che le scuole incontrano maggiori o minori difficoltà nello svolgere il loro compito educativo se la cultura informale degli allievi converge con quella formale. 

Ci sono due modi per interpretare i dati che si riferiscono a questi due gruppi di variabili: si può operare un taglio sincronico nel fluire dell'attività, o si può cercare di coglierne l'evoluzione attraverso il tempo. Il taglio sincronico (è come dire la fotografia della condizione esistente) ha una sua utilità didattica, ma può portare a stabilire inferenze improprie se si tentano interpretazioni che riguardano il processo educativo, e quindi i cambiamenti che è possibile rilevare nei due gruppi di variabili menzionati. Una prospettiva temporale estesa è dunque la condizione per valutare l'attività educativa. Ed è su questa valutazione che le scuole possono fondare le decisioni che riguardano le scelte organizzative e didattiche (terzo gruppo di variabili). 

 

Le considerazioni appena esposte hanno senso se riferite a situazioni non troppo diverse le une dalle altre. Ne hanno molto meno quando il quadro di riferimento presenta, come nel sistema scolastico italiano, livelli elevati di dispersione nella distribuzione delle variabili tra le aree geografiche, le tipologie di territorio, i diversi insediamenti della popolazione, le attività produttive, la qualificazione culturale dei contesti. 

È da notare che queste condizioni sono note da decenni, e sono state rilevate, su basi campionarie con procedure definite nell'ambito d'istituzioni internazionali, già una quarantina d'anni fa. 

Il fatto è che dai dati allora raccolti, così come da quelli rilevati in occasioni successive, una volta scontato l'effetto emotivo del momento, non sono state tratte conseguenze. Le misurazioni sono rimaste misurazioni e le valutazioni, che avrebbero comportato una qualche assunzione di responsabilità, non ci sono state. 

 

Si comprende, di conseguenza, l'atteggiamento negativo che si è prodotto nei riguardi di una misurazione della quale sono troppo poco definiti gli intenti per offrire un riferimento attendibile al dibattito sullo sviluppo del sistema educativo e, considerando gli orientamenti che hanno prevalso nella politica scolastica di questo inizio di secolo, si capisce anche perché non pochi sospettino che l'intento perseguito non sia quello di migliorare il sistema, ma di riversare la responsabilità di ciò che non soddisfa sulle scuole e sugli insegnanti.

 

Non è facile tuttavia indicare che cosa soddisfi e che cosa non soddisfi. Sono stati troppi e contraddittori i segnali rivolti alle scuole circa gli intenti da perseguire con la loro attività. Siamo tutti sensibili ai livelli scadenti della capacità di comprensione della lettura o delle competenze matematiche e scientifiche, ma non si capisce per quale ragione non si sia posto impegno nella riorganizzazione della lettura pubblica o delle biblioteche scolastiche e si siano lasciati andare in malora, quando esistevano, i laboratori per le esperienze e le dimostrazioni scientifiche. Al contrario, sono stati agitati lustrini sostitutivi con l'unico effetto di ridurre ancora di più le risorse utilizzabili dalle scuole per proporre esperienze di apprendimento valide per tempi estesi. 

 

Le reazioni di rifiuto indotte da comportamenti improvvidi rischiano di disperdere anche quel poco di sistematica valutativa che, molto faticosamente, si era affermata nella scuole: per esempio, la distinzione tra le varie funzioni della valutazione, l'individuazione delle possibilità e dei limiti delle diverse soluzioni strumentali ecc. 

Non contribuisce a creare un clima favorevole l'enfasi che è stata posta sulle misure per individuare comportamenti impropri (cheating: ma perché dirlo in inglese? La parola italiana imbroglio è forse meno densa di significato?). 

 

C'è bisogno di ricostruire un clima di fiducia, senza il quale nessuna valutazione è possibile. Occorre chiarezza nell'indicazione degli intenti, oltre a una competenza valutativa che non derivi da semplice imitazione di quanto avviene altrove, ma da una accumulazione originale di conoscenza quale può fornire solo un serio impegno per lo sviluppo della ricerca educativa.

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