Chi inquina paga e i cocci sono suoi!

Chi inquina paga e i cocci sono suoi!

La tassazione locale “ambientale”: la Service Tax,  tra principio comunitario del “chi inquina paga” e ricerca di equità.

In un momento in cui il Paese è piegato dalla crisi economica e da quella politica, in cui è schiacciato sotto il peso di un sistema politico ed economico che non riesce a trovare la forza per reagire e guardare al futuro, abbiamo assistito inermi – e con un certo imbarazzo –  alla “riforma” dell’imposizione locale, per effetto dell’abolizione per metà (!) dell’IMU, il tributo immobiliare a carattere patrimoniale per definizione.

Il “risveglio” dal torpore estivo, infatti, ha visto la questione IMU (a dire il vero: non solo quella) al centro della bagarre politica.

A margine di questo inizio di un “caldo” autunno, a cose (quasi) fatte ed umori (s)composti, in attesa che vengano rese note le determinazioni operative più specifiche (se mai dovessero vedere la luce), può essere utile fare, sul tema, qualche riflessione scevra da quegli insopportabili preconcetti figli della “bassa strategia politica”.

Ed oggi che uno dei “problemi” (politici) è stato decidere se tassare i consumi o tassare la proprietà (ed in questo particolare momento storico, in considerazione delle emergenze che vive il nostro Paese, considero scellerata la scelta fatta dal Governo di tassare i consumi!), voglio provare a rilanciare, per il bene di “un futuro che è già oggi”, un tema importante: il tema del carattere ambientale della imposizione locale sui rifiuti.

 

Quando a fine agosto scorso (con il comunicato n. 22 del 28 agosto 2013 e il DL n. 102 del 31 agosto 2013), il Consiglio dei Ministri ha previsto l’abolizione della prima rata dell’IMU per il 2013, è stata anche prevista l’introduzione, a partire dal 2014, di una nuova tassa denominata Service Tax (per la verità la previsione di una imposta destinata a finanziare il servizi pubblici indivisibili dei Comuni era al vaglio già da tempo), con l’obiettivo di sostituire, tra l’altro, la Tares, secondo una nuova modulazione ancora da definire nei dettagli.

 

In proposito, giusto per fare il riepilogo dello stato dell’arte dell’imposizione locale preesistente (e per far cogliere la schizofrenia impositiva cui siamo stati condannati!), è appena il caso di ricordare che, in tema di tassazione di immobili, in principio c’era l’ICI. Era il 1992 quando venne introdotta per la prima volta, poi abolita sulla prima casa nel 2008, per essere reintrodotta poco dopo finché, nel 2012, il legislatore non decide di mandarla in soffitta per introdurre l’IMU.

In tema di tassazione dei rifiuti, invece, c’era la Tarsu (tassa per lo smaltimento dei rifiuti), la TIA (Tariffa di Igiene Ambientale), poi, dal gennaio 2013, il legislatore al loro posto decide di introdurre la TARES, ovvero il Tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a mezzo della quale poter pagare i costi relativi al servizio comunale di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento.

 

Volendo glissare sulla vicenda “politica” della seconda rata dell’IMU (ad oggi si discute dei termini in cui mantenerla!), mi limiterò a esporre qualche brevissima riflessione sul tema della tassazione locale ambientale, alla luce delle linee guida del Governo, nel solco dei principi comunitari esplicitamente richiamati.

La Service Tax è stata pensata come imposta caratterizzata, contestualmente, da due componenti: la Tari e la Tasi.

La Tari, a mezzo della quale verrà sostituita la Tares (ossia la tassa sui rifiuti e i servizi già pagata da inquilini affittuari), dovrebbe essere destinata a coprire il costo della raccolta dei rifiuti, secondo aliquote calcolate dai Comuni da applicare ai metri quadrati dell'abitazione, in misura tale da garantire la copertura del servizio.

La Tasi, invece, andrà a coprire i costi dei c.d. "servizi indivisibili" (manutenzione delle strade, illuminazione pubblica, aree verdi e polizia locale). In tal caso, il Comune potrà scegliere come base imponibile - afferente pur sempre all’immobile - o la superficie o la rendita catastale: verrà pagata in parte dal proprietario dell'immobile (in quanto i "servizi indivisibili" sono parte integrante del valore commerciale dell'immobile), in parte dall'affittuario, (in quanto occupante e dunque beneficiario diretto di questi servizi).

In attesa di sapere come funzionerà e cosa cambierà effettivamente, appare chiaro che la Service Tax sarà, verosimilmente, caratterizzata da un accentuato profilo “patrimoniale”, in aggiunta al profilo proprio del “servizio”.

 

Ebbene, aldilà dei possibili problemi applicativi scaturenti dalla riforma del prelievo sugli immobili (ben noti tanto ai tecnici quanto ai politici), ai fini di questo breve contributo, vorrei richiamare l’attenzione su di un tema che, se opportunamente valorizzato, potrebbe rappresentare una opportunità per la salvaguardia dell’ambiente e l’innovazione degli strumenti di gestione territoriale: il tema di una tassazione locale relativa ai rifiuti che sia effettivamente ambientale.

In proposito, secondo quanto previsto dalle linee guida della nuova Service Tax, la prima componente, ovvero quella sulla gestione dei rifiuti, dovrà essere commisurata alla superficie, parametrata dal Comune con ampia flessibilità ma, ad ogni modo, nel rispetto del principio comunitario del c.d. “chi inquina paga” ed in misura tale da garantire la copertura integrale del servizio (insomma una vera trasformazione del principio di base: dal principio del puro beneficio al principio del costo e del beneficio assieme).

Nell’incertezza di come verrà attuata, in concreto, la struttura di massima prevista, voglio provare a fare qualche riflessione proprio sul principio di matrice comunitaria richiamato (è uno dei principi cardine della politica comunitaria in materia ambientale funzionale alla protezione dell’ambiente) e sulle sue possibili declinazioni operative e relative implicazioni.

Preliminarmente, va precisato che, con l’esplicito rinvio a tale principio, il legislatore di fine agosto sembra avere manifestato l’intenzione di volersi muovere nel senso di “utilizzare la leva fiscale per la correzione delle esternalità connesse all'ambiente, l'incentivazione di comportamenti attenti alla conservazione e protezione di quest'ultimo, la promozione di tecnologie sostenibili e la progressiva eliminazione di sussidi dannosi per l'ambiente”.

Il ricorso alla leva fiscale, dunque, come strumento che consenta di prevenire e correggere il danno ambientale, ovvero reagire agli effetti inquinanti, aumentando il costo dei comportamenti che producono diseconomie esterne e che si concretizza nell’obbligo di sopportare i costi al momento in cui si è contribuito a generare il rifiuto.

Dopotutto, il principio richiamato ha un senso, soprattutto, in quanto l’inquinatore è incentivato ad evitare l’inquinamento ambientale.

Il principio del “chi inquina paga”, infatti, si fonda sull’assunto per cui i costi legati all’inquinamento dell’ambiente non possono venire ignorati o addossati alla collettività ma devono essere imputati a colui che è responsabile dell’inquinamento.

Ne consegue che un intervento normativo ispirato a tale principio dovrebbe essere volto ad assicurare, più efficacemente, sia l’effetto disincentivante alla produzione dei rifiuti sia una maggiore correlazione tra la misura del prelievo e l'effettiva fruizione del servizio.

Sostanzialmente, il principio del “chi inquina paga” potrebbe, quindi, essere inteso quale disciplina precisa dell’imputazione dei costi, ovvero, per dirla secondo i principi della responsabilità civile, alla stregua del criterio del nesso causale.

 

Ma quale è il legame ragionevole con il “contributo”?

Per rispondere a questa domanda, occorre soffermarsi sul tema dei possibili vantaggi di un sistema basato sulla liquidazione esatta dei costi causati dal singolo produttore di rifiuti e ad esso, direttamente ed immediatamente, imputati.

Dimodoché, mutuando dalla eterogenea pluralità delle esperienze rinvenibili in materia, nelle varie realtà locali, per una disciplina dei costi dello smaltimento dei rifiuti urbani che corrisponda esattamente alla quantità dei rifiuti, si potrebbe, per esempio, pensare di  registrare i rifiuti conferiti ed i relativi costi per poi addebitarli al produttore di rifiuti. In tal caso, l’incentivo ad evitare di produrre rifiuti sarebbe certamente forte, in quanto ogni diminuzione della quantità di rifiuti comporterebbe un risparmio dei costi.

O ancora, per esempio, mettendo a disposizione sacchi della spazzatura speciali o cassonetti standard dietro il pagamento di un corrispettivo; ovvero pesando, i rifiuti prodotti, in occasione della raccolta, e tenendone conto al momento di calcolare le tariffe.

Un modo per affrontare il problema dell’onerosità di tali sistemi, inoltre, potrebbe essere quello di creare (e mantenere) un’adeguata rete integrata di sistemi di raccolta e di impianti di smaltimento, che tengano conto delle tecnologie più perfezionate a disposizione - anche per quanto riguarda il riciclaggio - e che non comportino costi eccessivi.

Si consideri, tra l’altro, come nei sistema maturi difficilmente (o comunque sarebbero più facilmente neutralizzabili) si assiste a fenomeni per cui i produttori di rifiuti smaltiscono i propri rifiuti quali “free rider” di sistemi di raccolta altrui (per esempio, utilizzando i bidoni della spazzatura del vicino o i cassonetti pubblici), oppure li abbandonano.

Si tratta di sistemi che, posti a beneficio del risparmio oltreché della tutela del bene primario “ambiente”, implicano (ed ecco il punctum dolens per latitudini come la nostra) un controllo preciso e puntale della quantità dei rifiuti e che, pertanto, esigono una spiccata maturità civica del contribuente oltreché un decisa capacità di verifica e controllo da parte dell’istituzione deputata.

 

Andando dunque al nostro sistema, alla luce della nostra “scarsa maturità (sensibilità) ambientale”, viene prevista una declinazione più flessibile del principio del “chi inquina paga”: una declinazione fondata sull’opportunità di non impostare la disciplina dei costi dello smaltimento dei rifiuti urbani su una liquidazione esatta dei costi causati dal singolo produttore di rifiuti.

Ed infatti, nel nostro sistema, l’importo del contributo ai costi si baserebbe, da un lato, sull’estensione dei locali utilizzati e delle aree scoperte, e dall’altro, sul coefficiente di produttività  quantitativa stimato per il tipo di uso.

Ora, sebbene in linea di principio, possono sussistere valide argomentazioni a supporto dell’applicazione flessibile del principio considerato, occorre avere cura ad evitare di stravolgere la portata del principio stesso.

Insomma, flessibilità si ma a patto che si possano formulare ipotesi plausibili sui quantitativi di rifiuti che saranno prevedibilmente prodotti, in particolare tenendo conto di dati empirici.

Il conseguente corollario di una applicazione flessibile del principio, infatti, sarebbe non esigere un’esatta liquidazione dei costi ma fare riferimento all’appartenenza del soggetto ad un gruppo responsabile, nel suo complesso, per l’inquinamento ambientale, sempre che, pur essendo accertato che tutti i membri del gruppo hanno contribuito all’inquinamento, non sia tuttavia possibile stabilire, in maniera diretta, il rispettivo contribuito individuale e i costi che ne risultano.

Diversamente, il rischio potrebbe essere quello di trovarsi innanzi una disciplina dei costi caratterizzata da fattispecie tipiche che, tuttavia, potrebbero non tenere conto, in concreto, della effettiva quantità di rifiuti prodotta, violando innanzitutto il principio stesso e recando, altresì, problemi d’equità. 

Nell’attuare il principio del “chi inquina paga” occorre, pertanto, ponderare vantaggi e svantaggi delle diverse alternative, avendo cura di tenere nella doverosa considerazione le condizioni locali, quali per esempio le condizioni geografiche, il tipo di insediamento, lo stadio di sviluppo del sistema di raccolta e smaltimento rifiuti utilizzato o la valutazione del rischio di uno smaltimento illegale dei rifiuti e puntando, in maniera coraggiosa e determinata, l’obiettivo primario della salvaguardia dell’ambiente secondo l’unica filosofia accettabile, quella di uno approccio sostenibile!!!

Insomma, per una contabilità dell’inquinamento, trattandosi di ripartire il costo prodotto da una data comunità, all’interno di essa, secondo il principio dell’imputazione dei costi più corrispondente possibile alla concreta responsabilità da parte di chi l’ha prodotto, la ponderazione esige complesse decisioni già in sede previsionale.

Perché se c’è una cosa dalla quale non si può derogare è che il principio del “chi inquina paga” deve essere inteso a garantire che tutti gli strati sociali assumano un comportamento che danneggi l’ambiente nella minor misura possibile, secondo una partecipazione responsabile e consapevole ai costi sostenuti.

Non c’è altra strada.

 

E’ davvero giunto il momento di vincere la scommessa della sostenibilità?

Noi “sosteniamo” di si!

 

Iole Nicolai, Big Bang dei Nebrodi


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